Cesare Castriota
Cesare Castriota (1543-1597) costruì il palazzo che porta il suo nome. Egli è figlio di Ferrante, secondo duca di San Pietro in Galatina e nipote di Giovanni figlio di Giorgio Castriota diretto discendente, quindi, dell’invitto re degli Albanesi, Giorgio Castriota Sckander-beg (1405-1468). Lo stemma del loro casato è l’aquila nera a due teste ovvero, secondo la scienza dell’araldica, d'oro, all'aquila bicipite a volo abbassato di nero coronata da due corone d’oro all’antica, accompagnata in capo della pila rovesciata d'azzurro, caricata della stella d'oro di sei raggi.
Ferrante ebbe più di figli, Erina, Federigo, Pardo, Achille, Annibale e, appunto, Cesare figlio naturale e legittimato di Ferrante. Erina sposò nel 1539 il duca di Corigliano Pietroantonio Sanseverino, Achille (1540-1591) fece fortuna col mestiere delle armi e andò a vivere a Cassano dando origine al ramo propriamente detto di Cassano, mentre Cesare si portò in Corigliano dando inizio alla discendenza dei Castriota di Corigliano.
Cronache del tempo c’informano che Cesare, “figliolo de lo Signor Duca”, nacque in Galatina dove è battezzato l’8 marzo 1543. A Corigliano è documentato con certezza nel 1551 (Platea Lignito). Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1561, insieme a Pardo e ad Achille, figli dell’ llustrissimo quondam Duca, Cesare è attestato nuovamente a Galatina segno che non ha ancora stabilito la sua fissa dimora. Ma è già uno degli esponenti più importanti di questa famiglia che a lui deve gran parte delle prime fortune. Quando impalma la coriglianese Giulia Abenante (pronipote di Barnaba barone di Capolezzati sepolto a Corigliano nella sagrestia vecchia della chiesa di Sant’Antonio), Cesare è al suo terzo matrimonio. Prima di lei aveva sposato Erina Curto (dalla quale ha un figlio, Giorgio) e poi Laura Longo dalla quale ebbe Francesco, Lelio, Pietro, Carlo Maria e Maria. Alla cerimonia di nozze con l'Abenante partecipa la migliore nobiltà cittadina ed il banchetto è servito nel palazzo appena costruito. Giulia porta in dote a Cesare metà del Feudo di Calopezzati terra che negli anni 1598-99 ritroviamo intestato a Pietro Antonio Abenante e agli eredi di Cesare Castriota e del capitano Giovanni de Abenante. Dal matrimonio con Giulia nacque un solo figlio, Antonio.
Nell’ultimo quarto del Cinquecento Cesare è impegnato in vicende di acquisti di feudi rustici e nel movimento creditizio. Com’è stato scritto, “una lite ereditaria, una contesa cittadina, qualche annata di cattivo raccolto, il peso di un improvviso accumulo di debiti…bastavano a travolgere nella rovina famiglie apparentemente provvedute di una consistente agiatezza; e poco più o meno basta per far percorrere la strada inversa”. Ne emerge il quadro di uno sforzo costante atto a consolidare, in posizioni di maggiore prestigio e sicurezza economica, il patrimonio di famiglia. Nel 1581 è tra quelli che finanziano il Banco di Cosenza al quale egli assicura la cospicua somma di 3.000 ducati, secondo soltanto al barone di Fagnano. La buona sorte di Cesare cresce mentre si consuma quella dei suoi più potenti parenti della casa di Bisignano, i Sanseverino. Cesare Castriota, così come pure gli Abenanti, compare negli elenchi dei suffeudatari dei Bisignano (ASN, Sommaria). Nel 1582, Nicolò Bernardino Sanseverino gli cede, con lo jus di ricompra, per 2.250 ducati, i casali di San Giorgio e Vaccarizzo suffeudi di Corigliano appartenenti ai Sanseverino. Il 27 ottobre 1582 Cesare, infatti, acquista il casale albanese di Vaccarizzo e la giurisdizione criminale del Casale di San Giorgio allora possesso del genovese Francesco Interano.
Nel 1587 il banco di Cosenza fallisce a causa di Agostino Belmosto che si dilegua portando via “tutti li denari contanti”, ma le finanze di Cesare rimangono solide e nell’elenco dei garanti del banco Cesare Castriota è giudicato in grado di poter versare i 500 ducati della somma a suo tempo garantita. Il 2 agosto 1587 egli è documentato come “barone di Baccarizzo et Santo Jorio”; sei anni dopo, nel 1593, Cesare rivende il casale di San Giorgio, con i vassalli, la giurisdizione civile e criminale e i redditi del banco di giustizia, a Marcello de Loise da Bisignano. Prima del calare del secolo, non ancora al culmine di una vita pur densa di storie e di vicende da raccontare, muore nel 1597 all’età di 54 anni.
Giulia Abenante
Donna Giulia Abenante fu la terza ed ultima moglie di Cesare Castriota. Dopo la morte del marito, nel palazzo di famiglia vivono con lei il primogenito di Cesare, Giorgio, avuto da precedenti nozze, la suocera Giulia Castriota ed altri sette figli. C’è lo racconta lei stessa, in un atto notarile del 19 maggio 1597 vergato dal notaro Ascanio Salimbene, dove donna Giulia dichiara di vivere nella domo in vico San Luca. Nell’atto sono fornite anche notizie sul palazzo dove da una sala, dove erano ricevuti parenti ed ospiti, si accedeva alle altre stanze che formavano l’appartamento dove vivevano i membri della famiglia. Ad un secondo alloggio, riservato alla servitù e alla governantevi, si accedeva con una scala interna; questo era formato dal forno, da locali per le masserizie e da una stanza segreta dove si tenevano “scrigni ricolmi di gemme”.
Dopo la morte di Cesare ella si risposa con Pompeo Valentone suffeudatario nel 1598 di S.Vito in territorio di San Marco. Giulia Abenante muore nel 1629.
Antonio Castriota
Antonio Castriota Scanderebech abita in questo palazzo con il fratello Lelio. Don Antonio è un uomo autorevole. Non meno di suo padre Cesare, è Barone di San Demetrio, di San Cosmo, di Santa Sofia e di Macchia, oltre a ricoprire importanti cariche pubbliche. E’ sposato con Vittoria Milizia ma dalla quale non ha figli. Nel 1631 don Antonio sposa in seconde nozze Isabella Gonzaga di San Marco Argentano figlia di Andriace barone di Joggi piccola località di Santa Caterina Albanese. Nel biennio 1632-1633, don Antonio è eletto sindaco di Corigliano. Da questo matrimonio nacquero Domenico e Francesca. Il maschio Domenico non si sposò ma ebbe un figlio naturale, Saverio, da Isabella Oranges, la femmina viene invece monacata nel monastero delle Clarisse di San Marco dove nel 1663 la "Signora Donna Isabella Gonsaga paga per lo Vitto di Donna Francesca Castriota sua figlia ogn'anno docati vinticinqui".
I figli naturali, pur portandone il cognome, non erano riconosciuti nell’asse ereditario, cosicché alla morte di don Antonio il palazzo rimase al fratello di lui, Lelio, che aveva rafforzato il ruolo di successore unico del ramo di Corigliano sposando cum dispensatione Erina Castriota della linea di Cassano. Ma l'albero dei Castriota ramifica a fatica e, duecento anni dopo da quando il casato è giunto a Corigliano, si estingue, con Erina (1689-1779), ultima ed unica discendente, che andò in sposa ad un Solazzi. Alla morte di Erina, il palazzo e l’intero patrimonio dei Castriota passò a questa famiglia che da allora al proprio nome unirono quello di Castriota Scanderbeg e, al loro stemma, l’aquila bicipite coronata.
Isabella Gonzaga
Dalle pieghe del tempo affiorano storie affascinanti, avvincenti, talvolta inquietanti. Quella che vi raccontiamo è scritta in un atto notarile del Seicento che narra la storia della “possessione diabolica” di Isabella Gonzaga.
Isabella Gonzaga o Gonsaga, era nata a San Marco Argentano ed aveva sposato nel 1631, in seconde nozze, don Antonio Castriota, nobiluomo tra i più facoltosi di Corigliano; in realtà era stata promessa in sposa ad un altro, ad Antonio Mezzotaro della terra di Corigliano, ma non si sa nè come nè perchè di questo matrimonio non se ne fece poi nulla. Lui, sindaco di Corigliano, è occupato tra affari e politica, lei è spessa a San Marco dove si reca per fare visita ai parenti. Presto si disse in giro che Isabella fosse l’amante di Giovan Battista Monforte, un funzionario di Cosenza con il quale forse segretamente s’incontra. Quella storia durava da tempo ed era sulla bocca di tutti: Isabella è diventata una delle donne più chiacchierate della città. Don Antonio non sa darsi pace, ma non ripudia la moglie come ci si aspetterebbe; ciò significherebbe dare prova alle voci sull’esistenza della reazione extraconiugale. Ogni tentativo da parte del marito di farla ricredere è vano; ad Isabella è proibito di allontanarsi. Forse per la clausura, forse per il gran senso di colpa nella quale avevano condotto la donna o più verosimilmente per qualche malanno, Isabella cominciò a stare male finché un giorno perse completamente la parola. Inutili si rivelarono i rimedi dei medici chiamati a consulto. Gli appare in sogno l’immagine del glorioso San Domenico di Soriano. Isabella è devota al santo e promette di fare un “voto”; chiamerà un figlio con il suo nome. La voce di lì a poco gli torna ma non la “sua intiera sanità del corpo”. La circostanza, miracolosa, fece dire a “li genti di casa” che donna Isabella fosse stata colpita da una “maija” (magarìa) e che quel male era dovuto a possessione del demonio. Per la gente del posto Isabella aveva subito una fattura (sortilegio) e quella torbida relazione non poteva che essere opera del maligno che aveva fatto nascere quell’intrigo amoroso inaccettabile. Si decise allora di fare l’esorcismo per allontanare la presenza demoniaca ritenuta responsabile di quel malanno e, forse, della sua vita adulterina. I dubbi agitano la mente di don Antonio che non sa se credere o no a questa storia. Sta di fatto che Isabella Gonsaga il 28 marzo dell’anno 1640 è esorcizzata. A compiere l'arcano rituale viene chiamato il rettore della chiesa di San Luca attigua al palazzo, don Giacomo Foresta. L'esorcista pronuncia il rituale, invoca l’immagine di San Domenico, alza la croce “...e dicendo il santissimo Rosario, et altre orationi la detta visione sparve, e no’ si vidde più” e Isabella finalmente viene liberata dallo spirito demoniaco.
Nei fatti o forse solo in apparenza, ad ogni modo le cose si misero per il verso giusto e la coppia ebbe due figli, Domenico e Francesca. Nel 1663 questa la troviamo come educanda nel monastero della Clarisse di San Marco dove il Duca di Corigliano, per la figlia di Isabella, monaca non professa, versa una dote annua di 25 ducati.
Ma si trattò davvero di esorcismo? Probabilmente fu soltanto un rituale di fattura, frutto della credenza popolare che riteneva che con un rito benedetto si potesse vincere ogni male, anche quello dell’adulterio. Certo è che questi riti, indipendentemente dal loro esito, appagavano officianti ed astanti e, soprattutto, l’opinione pubblica costantemente affaccendata a pettegolare sulla vita privata degli altri. Le fosche pagine del tempo, mai scritte, ce la lasciano immaginare come una donna volubile, affascinante, anche se il parlottio dei villici deve aver alimentato non poco quell’intrigo amoroso. Isabella di certo fu troppo spregiudicata per il suo tempo.
Nel malizioso, bigotto e cortigiano Seicento, secolo di amanti, di torbide storie e di caccia alle streghe, le malelingue potevano rovinare per sempre la reputazione di una persona, soprattutto se donna. Fosse vissuta oggi, la sua storia amorosa avrebbe riempito le cronache mondane di qualche rivista e dopo un pò quella storia sarebbe di certo dimenticata. Isabella era solo appassionata, come tutte le donne, dell’amore, ma le inflessibili norme sociali del tempo la condannarono, all’esorcismo. Da allora quella storia è finita e non se ne parla più. Anche la sua casa non è più la stessa, ma ancora qualcuno crede di vederla da una finestra guardare lontano. Forse sono solo fantasie, qualcuno giura che sia vero ma, ognuno si sa, può prendersi la storia e riscriverla come gli pare.
© Luigi Petrone/Castriota srl 2016